Da ‘Poematica del Principio Tai Chi’
Capitolo IV
SILENZIO
NELL’OMBRA PROFONDA
DELLE PAROLE
L’eco del silenzio – La percezione non verbale – Tacere tutto – L’effrazione del silenzio – Il rovesciamento nell’ombra – Il sorgere del tramonto – La maschera persuona – Toccare l’ombra
L’eco del silenzio
Dal fondo d’un abisso senza fondo il silenzio chiama ed è richiamato dall’eco. Opera una sospensione del tempo la cui percezione è data dalla durata d’un suono. Solamente il silenzio risponde a domande senza risposta, e la sua eco ridonda: fondo… senza fondo, chiama… richiamato.
Molto sottile e raffinata è L’arte dell’ascolto (2017), esibita nell’omonimo libro di Franco Cracolici, Fabio Pianigiani e Massimo Rinaldi, ed è ancor più indagatrice quando ascolta il silenzio infiltrato tra le parole e il respiro.
Ma il silenzio in realtà non esiste e il tempo non si ferma, vi sono unicamente soglie acustiche sotto e sopra le quali possiamo percepire un rumore od un suono. Così non avvertiamo gli ultrasuoni o i suoni trasformati in onde elettromagnetiche, nelle quali siamo costantemente immersi.
Nello spettro delle frequenze udibili sono ascoltabili molteplici tipologie di silenzio in relazione a ciò che lo precede e lo segue, al contesto da cui emerge ed a ciò che contiene.
Qui per economia dell’andare nella direzione prescelta – lungo la descritta sponda dove fluisce il principio superiore Tai Chi – la riflessione è rivolta e sostanzialmente limitata all’economia del parlare nell’apprendere ed insegnare il Tai Chi Chuan, lo vedremo nell’ultimo capitolo “Tipologie del mentore” dove tuttavia, nel terminale paragrafo Un pugno… di parole, si riconoscerà in queste il discrimine della consapevolezza nel fare.
La ‘forma’ del Tai Chi Chuan supera la dimensione temporale se viene eseguita con quello che Pier Aldo Rovatti ha chiamato L’esercizio del silenzio (1992). Nell’iniziare l’apprendimento e l’insegnamento come meditazione in movimento: tempo, silenzio e lentezza sono correlati. Nel mare del silenzio vegliato da una mente attenta, naufraga il samsara d’un mondo di vane parole. Il silenzio non viene sprecato in inutili ed affrettate domande poiché le risposte giungono da sole. Se il mentore è all’altezza del suo compito gradualmente dal fondo di quell’abisso trae rade, misurate, pesanti, consistenti parole rarefatte nel tempo, utili ad ampliare la facoltà d’ascolto e completare una pratica corporea trasformante. Altre volte la voce – elaborata nella gamma di volume, tono e frequenza – insinua nelle pause ulteriori considerazioni. Il potenziale delle parole risiede tra la vibrazione della voce del maestro e il battito del cuore di chi ascolta, ha osservato il poeta Khalil Gibram.
La ‘cognizione incarnata’ (embodied mind) riguarda l’apprendimento complessivo. Ciò implica un comprendere inclusivo non solo dei ragionamenti e dei concetti formulati, ma anche dei sistemi organici connessi, come quello corporeo, motorio e percettivo dai quali visceral-mente quelli emergono. Su tale approccio ‘enattivo’ Francisco Varela, Evan Thompson ed Elanor Rosch si sono espressi in La mente incarnata (1992), e dopo alcuni anni Antonio Damasio in The feeling of what happens: body and emotion in the making of consciousness (2000). Si può osservare che questi processi ‘studiati’ in Occidente erano già evidenti nell’esperienza, anche non verbalizzata, di molte pratiche orientali: in altre pagine al paragrafo Il linguaggio della filosofia, tornando in Occidente, la problematica appare riconducibile alla performance relazionale.
Un termine non radicato nel silenzio non ha alcun significato e potenza, ricorda il monaco camaldolese Franco Mosconi. Mentre è massima la potenza d’una folla silenziosa. Il Tao Te Ching annota essere il ‘pesante’ la radice del ‘leggero’ affinché questo non sia superficialità e il silenzio non sia ridotto ad uno stare zitti, bensì lo scrigno di parole ancora non dette. La pronuncia e l’apprendimento efficace di queste passano entrambi attraverso l’esperienza corporea.
Nel silenzio l’apprendimento progressivo della ‘forma’ – nei due aspetti d’una esecuzione didattica dell’insegnante e una ripetizione imitativa dell’allievo – amplifica la sensibilità percettiva dei movimenti ‘biomeccanici’ e dei fenomeni ‘bioenergetici’ interni. L’effettuazione imitativa del progetto motorio si attiva attraverso i neuroni-specchio, che promuovono e portano a compimento un’autonoma ‘prassognosia’ del progetto; attuano cioè la conoscenza e la memoria del movimento. Questa è una memoria procedurale impressa nel silenzio e sorvegliata dall’attenzione.
Il cercatore segue la guida in un percorso sconosciuto e, dopo innumerevoli passaggi, la traccia lasciata dalle impronte sul terreno diviene un sentiero segnato che autonomamente potrà percorrere. Il tracciato nelle mappe neuronali non è più imitativo, è percorso in modo spontaneo, naturale e solo coscientemente vegliato senza interferenze. La ripetizione silenziosa autonoma della ‘forma’ diviene ‘parossia’: ritrovamento e incontro con se stessi, con l’insegnante e i compagni di pratica. L’intenzione Yi attiva il procedere, lo spirito della mente Shen comanda e sorveglia, l’energia Qi segue e conduce, il corpo fisico Ti esegue. Le motivazioni, il contenuto, i valori e le finalità del progetto motorio, devono essere esplicitati e compresi: questo distingue il mentore da un domatore e l’allievo da un ammaestrato.
La percezione non verbale
L’esperienza percettiva richiede il silenzio delle pause. Si attua la condizione transpersonale dove le sensibilità corporee, esterocettive-enterocettive-emozionali, alla base del sistema cinesico-tonico-posturale, scorrono assieme al respiro, al movimento, all’energia, e fluiscono dirette dalla mente vuota, vigile e concentrata. La pratica è avvolta e permeata dal silenzio. Nel mare di questo la percezione non verbale, abbandonando il significato semantico delle parole, avviene nel Tai Chi prevalentemente attraverso la gestualità, il linguaggio del corpo, la prossemica e le applicazioni aptiche del contatto. Non è il silenzio tra i rumori, né quello tra le parole non pronunciate, è un processo d’indagine silenziosa dove il livello percettivo è al massimo grado. È una sensibile campana vuota colma dell’attenzione ai fenomeni interni e ai rapporti esterni; pronta ad entrare in risonanza anche se solo sfiorata. Questa campana voglio nominarla ‘Simone Weil’ per l’attenzione duttile della filosofa-mistica-scrittrice al cambiamento.
Le parole si pongono tra il taciuto e l’insieme paralinguistico, sono valigie da aprire piene di significati, ed anche parole in libertà, esaltate dal mare del silenzio da cui emergono, o in cui naufragano soverchiate da una comunicazione non verbale. La lingua delle emozioni e delle sensazioni comunica nella profondità del silenzio. In questo si percepisce il suono del corpo e ci si appresta ad un insight, ad una conoscenza intuitiva oltre il significante delle parole. Queste sono ricondotte all’essenza dove coincidono col significato; come un’esclamazione reattiva. L’intuizione silenziosa coglie tutti i segnali polivalenti del codice paralinguistico e prossemico di conserva al parlato. Quindi comprende la gestualità, lo sguardo, l’espressione facciale, l’abbigliamento, la postura, l’intenzione, il respiro, le mani e coinvolge sia il sistema cinesico (interno), che cinestesico (esterno).
“Anche il silenzio è parola”, ha scritto il poeta visivo Eugenio Miccini. L’accezione generica d’un silenzio inteso ‘stare zitti’, non è sufficiente e può essere ingannevole se non si entra in uno specifico silenzio utile per l’apprendimento del principio superiore Tai Chi. Specificità derivata da ciò che lo precede, da ciò che contiene e da ciò che lo segue.
Il silenzio, il tacere, può essere pieno e pesante come quello dell’analista quando il paziente avverte l’attenzione a lui dedicata, oppure avere la leggerezza della tela di ragno con grande coefficiente di resistenza dei suoi fili, sottili come quello del silenzio che cuce tra loro le parole. Si dovrà sostenere la pesantezza del silenzio e verificare la sua invincibile e catturante cedevolezza. Una ‘resilienza’ propria del Tai Chi più volte richiamata, dove la capacità d’ascolto, e qui di lettura, si fa fondamento. Quale silenzio? C’è un tempo per tacere ed un tempo per parlare.
Dobbiamo distinguere tra un ‘silenzio vuoto’ ed un ‘silenzio pieno’, cioè tra un silenzio di superficie ed un silenzio di profondità. Questi aspetti riguardano essenzialmente il maestro 49 e lo qualificano direttamente, così vedremo nell’ultimo capitolo, ma il loro effetto dipende anche dalla natura dell’allievo. Inutile parlare a chi non sa ascoltare, ed inutile ascoltare parole vuote. Si riprende qui la casuale numerazione di fantastici maestri – già annunciata all’inizio del libro – per smitizzare ironicamente la loro auspicabile esistenza.
Solo la voce e le parole provenienti dalla profondità del silenzio, pure spontaneamente inconsce, danno senso alla pratica, e la riempiono di significati multipli anche contrapposti. In questa condizione si realizza l’imprinting d’un flusso vocale energetico. L’imitazione dell’allievo è nel suo silenzioso ed attento sguardo; così nel film Il grande silenzio (2005) di Philip Gröning, dove l’occhio non giudicante del regista, onnicomprensivo e percettivo, segue docilmente il mutare della scena nel ciclo delle quotidianità. ‘Panottico’ d’una visione olistica che non guarda un confine claustrale, ma un orizzonte illimite. Non basterà tacere per dare uno spessore sacrale ad armoniose movenze. Il silenzio non è bastevole se non è uno spazio interiore dove saper cogliere/accogliere l’essenza tragica e comica della commedia umana e divina. Il sorriso ironico d’uno sguardo compassionevole ne riassume i componenti paradossali, logici o irrazionali.
Non è conflittuale ma contrastivamente opportuna la dualità di suono e silenzio. Si trova il suono nel silenzio – in ciò che le parole non possono dire. E si trova il silenzio nel suono d’un vuoto parlare. Così la quiete è da ritrovare nell’azione, e l’azione nella non azione Wu Wei Er Wei. Il silenzio profondo trascorre tra la formulazione dei pensieri e le parole che li esprimono, come il mare tra le isole.
Dal silenzio dell’insegnante emerge gradualmente, in misura proporzionale all’apprendimento della ‘forma’, lo svelamento degli aspetti teorici del Tai Chi Chuan e del principio superiore Tai Chi. Attraverso una tenace intenzione l’insegnamento orale non proviene dalla mente superficiale ma dallo Xin: dalla profondità dell’asse cuore-cervello descritto da Flavio Daniele in La quarta via del Tao (2016). Per questa via si approda ad una pratica consapevole ed è opportuno, nell’apprendimento, abbandonare un chiacchiericcio futile, esterno, da affondare all’interno zittendo e ascoltando l’esprimersi della profondità. Si ha così l’abbandono dei rumori esterni e il manifestarsi cinestesico (nella percezione) e cinematico (nel movimento) dei suoni interni: il suono del silenzio, del vuoto Kong.
I praticanti esperti del Tai Chi dovrebbero seguire anche uno studio selettivo e mirato di elementi storici, filosofici, medici, scientifici, culturali e artistici. Confucio scriveva che apprendere la pratica e non meditare è inutile, e meditare e non conoscere è dannoso. Abbiamo già incontrato Zheng Man Qing, maestro d’arte marziale, eccellente anche in pittura, poesia, calligrafia e medicina, direttore del Dipartimento di Pittura Cinese nella Scuola di Belle Arti di Shangai ed insegnante di poesia all’Università di Yu Wen a Pechino, prima di divenire, ai suoi tempi, celebre negli Stati Uniti.
Tacere tutto
L’insieme di conoscenze opportune ha lo stesso ruolo della ‘forma’ appresa e poi abbandonata (non scordata ma consustanziata nella spontaneità del fare). Il rapporto tra conoscenza e ignoranza non è governato dalle ambizioni dell’io, poiché la conoscenza è comprensione e per divenire tale è nutrita dalla pratica della virtù: diversamente la cultura e il sapere divengono aggravanti. Si deve “…seguir virtute e canoscenza” (Dante, Inferno, XXVI). Acquisire abilità, nozioni e ridiscendere dalla montagna posizionandosi alla pari tra coloro che non sanno. Superare il dualismo conoscenza-non conoscenza e porsi tra i saggi, riconoscenti la propria socratica ignoranza. Similmente un maestro 302 sarà stimato tale dagli altri per il suo comportamento esemplare, non per autoreferenzialità.
Nell’adesione al principio Tai Chi non è sufficiente stare zitti, e non è bastevole riconoscersi ignoranti per possedere la Prajna, la saggezza. Nell’esperienza corretta d’un gruppo di apprendimento si affronta l’apparente divaricazione tra silenzio e logos, tra pratica silenziosa e conoscenza dialogica. Si rispetta un sostanziale silenzio durante insegnamento e apprendimento della ‘forma’, e si organizzano periodicamente ‘incontri per una pratica consapevole’, dove l’insegnante illustra differenti problematiche culturali ricollegabili al principio superiore Tai Chi. In questo contesto si formulano le domande, e si esprimono con la mente e con il cuore i dubbi, le perplessità e le problematiche. Qui il silenzio si apre al confronto dialettico e critico, per poi tornare al silenzio d’una pratica consapevole. Ricorrendo al logos si fa riferimento a questo nelle tre accezioni di: parola, pensiero e ragione, già considerate. Il Tai Chi Chuan oltre l’aspetto del Chuan, nella sua adesione al principio Tai Chi diviene una ‘pratica olistica’, una complessiva visione non giudicante del mondo, un superiore modo di trascorrere la propria esistenza. Non modifica l’imprevedibile percorso della vita, ma indica la modalità dell’andatura, la sensibilità di avvertire e affrontare gli accadimenti. Modalità previsionale e comportamentale considerata nei capitoli sul Libro dei Mutamenti e sul Tao Te Ching.
L’insegnamento e l’apprendimento dell’esecuzione biomeccanica e bioenergetica della ‘forma’, procedono in predominante silenzio. Questo predominio, per essere pratici ed efficaci, dovrebbe superare di gran lunga il tempo dato alle spiegazioni verbali. Quando l’insegnante rompe il silenzio mostra immediatamente, ad un accorto osservatore, se il suo era un silenzio di superficie o di profondità, se era un silenzio vuoto o pieno. È l’analoga situazione della pratica dimostrazione dei contenuti marziali in uno scontro. Ma anche dal punto di vista marziale: “le sirene possiedono un’arma ancora più terribile del canto, il loro silenzio” ha scritto Franz Kafka. Il praticante silenzioso è un praticante temibile. Come il silenzio deve essere di profondità e pieno, così la ‘non azione’ non è inerzia, ma la potenzialità coltivata di un fare reattivo e responsivo emergente. Si deve trovare l’azione nella non azione e l’immobilità nel movimento. Nell’esecuzione sequenziale della ‘forma’, ogni progetto motorio realizzato ha l’eco del precedente e il seme del successivo. È per questa ragione che la ‘non azione’ in sé, come il silenzio, è un transito poiché tutto muta, ed una situazione è condizionata dalla precedente e ne prefigura una seguente. Per uscire definitivamente dai paradossi di ‘silenzio’, ‘non azione’ e ‘vuoto’ rendendoli praticabili, è da considerare quest’ultimo non essere il ‘nulla’, già affrontato da Sergio Givone in Storia del nulla (1995). Le dimensioni del ‘tutto’ o del ‘nulla’ appartengono al Tao e sono estranee alla nostra possibilità d’indagine diretta, mentre il ‘vuoto’ presuppone i lati di un suo contenitore, similmente allo zaino le cui caratteristiche, già descritte, ne determinano la portanza. Così il silenzio pieno del maestro 229 è un vuoto di parole colmo di esperienze e conoscenze.
Poetica del silenzio e dimensione del Tai Chi Chuan come poema gestuale si potenziano tra loro. L’altro delle parole non è il silenzio, ma la pratica, l’altro del logos è il poiéin, il fare. L’ombra delle parole è tempo sospeso su un silenzioso spazio vuoto, il loro significato è tempo poggiato sullo spazio pieno dell’enunciazione.
Esiste un’onestà ritmica del silenzio, abbiamo già incontrato il protofuturista Canto notturno del pesce (1905) di Christian Morgenstern, descritto da semplici segni intervallati per eseguire il boccheggiare muto d’un pesce alla luna. Nella sua partitura il Canto porta un equilibrio inatteso nei segni e nei suoni della prosodia, costruendo nell’insieme alternante una “dimora del tempo sospeso”, per usare una dizione di Francesco Marotta, appeso alla notte. Oppure il silenzio è un ponte teso tra sponde di parole nei versi del mistico Jalal al-Din Rumi. La sua dimensione estetica risiede nell’imminenza d’una rivelazione estatica non data, e realizza una coinvolgente condizione fàtica. Questa imminenza rimane immanente perché non v’è risposta, dall’altra parte del ponte sospeso nessuna sponda di parole: il Tao non è nominabile ma è praticabile il principio Tai Chi.
L’effrazione del silenzio
Nell’effrazione del silenzio, la voce e l’oralità hanno una lunga, variegata storia nelle arti marziali orientali e non solo. Nello stile Yang del Tai Chi Chuan, oltre le note vocalizzazioni Heng-Ha, esistono diversi suoni in rapporto alla tipologia dell’energia emessa collegando progetto motorio, respirazione e fonazione. Il Manuale della famiglia Li, trascritto da Wu Yuxiang, dedica un paragrafo all’impiego di differenti tonalità della voce nel potenziare l’applicazione della forza. In differenti tradizioni, in Cina e in India, la vocalizzazione vibrante di specifici fonemi è finalizzata a riequilibrare la funzionalità di un organo – anche per risonanza della particolare struttura parenchimale dello stesso, del suo stroma, del reticolo fasciale – come nei sei suoni terapeutici Liu Zi Jue nella pratica del Qi Gong.
Nella forma Tin Sin Kyuhn, o forma del filo di ferro dello stile Hung Gar, vi è l’emissione di suoni che esprimono cinque emozioni: rabbia, felicità, ansia, tristezza e paura collegate agli organi interni.
La ripetuta fonazione vibrante e cantilenante d’un mantra risintonizza respiro-corpo-mente-spirito. Il silenzio effratto è colmato dalla protratta vibrazione poliarmonica delle campane tibetane – nella meditazione e nella terapia – posizionate sui chakra, viene sollecitato lo scioglimento dei blocchi energetici con un’azione psicotropa sulla mente. Similare funzione è realizzata nei virtuosi armonici vocali di cui fu maestro, tra innovazione e tradizione nella poesia sonora internazionale, l’amico Demetrio Stratos.
Passando dalla tradizione al fronte più avanzato della ricerca scientifica, nel silenzio attraversato da vibrazioni sonore, come ora sperimentato dallo scienziato Carlo Ventura medico e biologo molecolare esperto di Tai Chi, le cellule staminali adulte – risintonizzate in campi magnetici pulsati con radiofrequenze estremamente basse – vengono ricondotte alla potenzialità morfogenetica delle staminali embrionali. Attivano così un’autoterapia rigenerativa. Ciò avvalora la visione olistica d’un universo il cui segnale di fondo è una fluttuazione ondulatoria – meccanica, elettromagnetica, atomica, gravitazionale – alla base di ogni mutamento.
La storia della vocalizzazione e dell’oralità riguarda anche i canti di allenamento Ge la cui memorizzazione suggeriva la forma da eseguire; nella tradizione della Scuola Tung (Dong) viene insegnato il Tai Chi-Qi Gong della Montagna tigre: una poesia recitata dalla gestualizzazione silenziosa di nove movimenti. Nella tradizione non solo marziale, ed oltre la ripetizione dei mantra, troviamo la recitazione esicastica dell’ortodossia cristiana; l’emissione vocale del Kiai nell’energia esplosiva giapponese; la Haka, la danza urlata dei Maori; le cantilene che accompagnano i ritmi delle marce militari o il lavoro nei campi; il sussurro nell’orecchio del dormiente nelle pratiche buddiste; le urla di disorientamento fino all’urlo mortale degli aborigeni australiani che a grandi distanze, senza essere acusticamente percepito, manderebbe il cervello del nemico in risonanza distruttiva, fenomeno reso famoso da un film del 1979 di Jerzy Skolimowski.
Quando l’insegnante del Chuan interrompe il silenzio la sua voce è esperta e consapevole parimenti ai gesti. A volte lo infrange con un urlo, a volte lo insinua pacatamente, altre lo insidia col bisbiglio. Con la comunicazione verbale e non verbale supera gli aspetti tecnici per essere naturalmente aderente alla sua personalità ed ai contenuti delle indicazioni pronunciate. Le parole cadono tra le pause: gocce pesanti in un vaso vuoto risuonano riempiendo lo spazio del silenzio, o planano come foglie leggere, mosse dalla brezza della voce, sull’attento e ricettivo terreno dell’allievo. Allo stesso modo le gestualità formali sono lievi e lente, o repentine e pesanti come un pestello nel mortaio.
Nella pratica della nostra arte il silenzio, dal bisbiglio alle urla di incitamento e ammonizione, non viene interrotto solo dalla voce ma anche dal rumore del balzo o del battere del piede sul terreno (di striscio o di caduta), dallo schiaffo sul dorso del piede portando un calcio, o da quello del pugno sul palmo della mano (il pestello nel mortaio) per l’emissione Fa Jin (energia esplosiva) nella pratica del Tai Chi Chuan di stile Chen. Queste improvvise fratture del silenzio hanno una specifica funzione didattica marziale, espressiva nel preciso momento di liberazione della dirompente energia accumulata. Comandi vocali paiono colpi su tamburi dove l’opponente salta come una piuma.
Tra la pratica d’un insegnamento gestuale silenzioso e la teoria appresa attraversando il logos, scorre una distinzione non uniforme o rigidamente definita tra le modalità dei maestri orientali – capiscuola dell’arte: ex oriente lux – e quelle degli insegnanti occidentali.
Nella tradizione orientale l’insegnante si limita essenzialmente a mostrare con precisione estrema i movimenti, le gestualità, le tecniche e le applicazioni rituali e marziali; null’altro traspare dal pur profondo silenzio. L’allievo orientale si guarda accuratamente da porre domande al di là del solco tracciato dal maestro 578, neppure sente la necessità di affrontare altre problematiche di carattere generale.
L’insegnante occidentale proviene da una tradizione dialogica e si pone un perché delle cose nel confronto tra le parole, che non può essere eluso, spesso connotando l’insegnamento pratico con un’ampia rassegna di conoscenze interdisciplinari. Parallelamente l’allievo d’Occidente pone molte domande, chiede libri da leggere, materiale didattico, video ecc. Pregi e difetti s’alternano nelle due modalità. Nella prima, l’abilità eseguita nel silenzio può non corrispondere effettivamente ad una profondità di conoscenza, riducendosi ad un mero per quanto marzialmente efficace tecnicismo. Nella seconda, una debordante problematicità culturale può inquinare, con inutili verbosità e sofismi, il mare del profondo silenzio dove risplende la pratica.
Anche qui Oriente ed Occidente devono incontrarsi per eliminare gli aspetti negativi e riunire armoniosamente ciò che qualifica differenti tradizioni con radici comuni.
L’incontro avviene nel territorio dell’antropologia culturale, nelle tecniche di cultura materiale, nell’odierna possibilità di aderire a forme appartenenti a tradizioni altre dalla propria. Incontro appena iniziato, con problematiche non ancora risolte, e dobbiamo coltivare entrambi: il valore del silenzio e il potere del verbo.
Partiti da un silenzio vuoto attraversiamo la parola per approdare ad un silenzio pieno: quello dei vecchi che hanno solcato la vita e dei saggi che l’hanno compresa. Anche nelle vie di trascendenza – tese ad andare oltre una raggiunta, esauriente e naturale saggezza – il silenzio ha un ruolo primario: nei misteri orfici ed eleusini, per il popolo degli Esseni, per i Mussulmani ai quali permette il congiungimento con Dio, per i Buddisti, per i Cristiani nella consacrazione dell’eucarestia ecc. Questo multiforme, rispettabile gregge può andare in una direzione o nell’altra ma il pascolo è dell’inconoscibile Tao. Nel silenzio si trascende ad esso e si scende dentro se stessi.
Il rovesciamento nell’ombra
Si narra che Dio distinse la luce dalle tenebre. Se il suono nella sua durata genera l’esperienza del tempo, la luce rivela nella prospettiva la dimensione dello spazio e la sua proiezione geometrica profila l’ombra e rende manifesta la tridimensionalità. Nel rapporto luce-suono e ombra-silenzio si può affermare invece, che è l’ombra nel suo sottostante e celato pozzo, ad operare la sospensione del tempo e il rovesciamento dei suoni. Italo Calvino in Il re in ascolto (Sotto il sole giaguaro, 1986) considera il rovesciamento dei suoni nell’ombra, e di concerto il silenzio assorbe l’intensità della luce. Luce e suono come esserci, ombra e silenzio come non esserci. Ma sulla terra arata dalla luce del sole, ombra e silenzio non sono luogo dell’assenza ma di irraggiungibile profondità. L’utopia di luce e suono identifica un luogo, mentre l’atopia, come ombra e silenzio, abita un non-luogo. Penombra è trasparenza dell’ombra e svelamento della luce, mentre brusio è infiltrazione del silenzio e rivelazione del suono.
L’ombra dell’essere coniuga sul terreno la dialettica tra visibile e invisibile, come luce cinerea che in essa si dissolve. Ancor più vi riesce, sulla riva del ruscello, l’ombra ‘liquida’ dell’albero riflesso nella metaforica superficie dell’acqua fluente, trionfando così sulla hybris greve della solida presenza della pianta. Il rovesciamento dell’ombra nella profondità dell’acqua mette a contrasto la radicalità dell’albero con la sua immagine mobile nella corrente. Allo stesso modo le leggi che regolano i princìpi dello Yin e dello Yang mettono tradizionalmente a confronto, tra Oriente e Occidente, i due versanti della montagna: uno illuminato dallo Yang, l’altro nell’ombra dello Yin e il loro mutamento nell’armonia alternante della sfera solare. Questa sfera nella tradizione taoista, e non solo, è il motore del mondo. Nell’arco circadiano della giornata sono Yang le luminose ore dall’alba al tramonto, e sono Yin quelle tenebrose della notte; ma il pomeriggio è Yin rispetto al mattino, e le ore prima dell’alba sono Yang al confronto con la profonda mezzanotte che le ha precedute. La persona alla ricerca della luce, dell’‘illuminazione’, non troverà la tranquillità nell’abbacinante zenith dell’ora mediana quando – scomparsa l’ombra risucchiata dall’oggetto illuminato – il tempo diurno svolta sull’asse e lo sguardo gira a ponente.
Il crepuscolo appartenente all’alba e al tramonto è momento adatto alla pratica del Tai Chi quando l’ombra lunga non è luogo dell’assenza e sostanzia e certifica la presenza del corpo; è perché c’è l’ombra che il corpo esiste. Così Parmenide: “Poiché tutte le cose sono state chiamate luce e oscurità, ed esse esistono secondo le loro qualità in ogni cosa, tutto è pieno ad un tempo di luce e di oscurità…”.
In differenti culture l’ombra, l’oscurità e la tenebra sono rapportate al male, al malessere, alla colpa; mentre la luce è riferita al bene, alla santità. La malvagità è tenebrosa e oscura, la luce foriera di armonioso benessere. Al di là del bene e del male se il ‘sonno della ragione’ genera mostri, Nietzsche per l’essenza tragica della vita veste le varianti maschere dell’esistenza (“dammi ti prego una maschera ancora, una seconda maschera”), e consiglia di non attardarsi a guardare l’abisso tenebroso, poiché lo stesso vorrà guardare in noi e riversarsi dentro. Precipizio senza fondo d’interminabile caduta. Mario Trevi in ‘Dialogando sull’arte del dialogo. Psicoanalisi e Psicoterapia’, (2008), ha distinto cinque modalità di elaborazione: la ricognizione dell’ombra, la sua proiezione, la sua identificazione e scissione, ed infine l’opportunità della sua assimilazione. Per noi è vigente la ‘similarità complementare e oppositiva’ tra l’oscurità dello Yin e la chiarità dello Yang.
Tra bene e male, tra luce ed ombra, tra positivo e negativo, Zhuang Zi scrive che fare propria la negazione equivale a far propria l’affermazione. L’altro proviene da te stesso, ma tu stesso dipendi dall’altro. Siamo davanti ad uno specchio allotropico, al riflesso di un’identità in forme diverse. “Je est un autre” scriveva Arthur Rimbaud. Infrangi l’acquaspecchio di Narciso dov’è riflesso l’io e conoscerai il sé nel confronto con l’altro. Fusione, con-fusione e distinzione dell’alterità.
Nei Discorsi sul Dharma di Ling Yun, ricordato da Nan Huai-Chin (Nan Huaijin) in Tao & Longevità (1984) è scritto quanto segue.
Chang Sheng chiese quindi ‘Cosa dici di un cielo senza nuvole?’. Il maestro disse: ‘Proviene ancora dalla vera natura’. Chang Sheng chiese: ‘Cosa proviene dalla vera natura?’. Il maestro disse: ‘È come uno specchio sempre luminoso e chiaro’. Chang Sheng chiese ‘C’è qualcosa al di là di questo?’. Il maestro disse: ‘Sì, se rompi lo specchio ti vedrò’. Chang Sheng chiese: ‘Se lo specchio è rotto, ciò significa che si è già percorso tutto il sentiero?’. Il maestro disse: ‘Non ancora’. Chang Sheng chiese: ‘Come lo si può realizzare del tutto?’. Il maestro disse: ‘Non hai sentito? Mille santi non replicheranno alla fine della strada. Comunque, ti descriverò un sentiero: il principio stesso è la fine. Il più superficiale è il più profondo. Nutri la bontà. Non fare nulla di male.
In tutti questi specchi affondo e mi confondo. Al termine di I tre dell’operazione drago (1973), l’ultimo film di Bruce Lee, l’eroe è circondato e disorientato da una serie di specchi dove ciascuno riflette il nemico in una replicazione infinita; solo rompendoli uno ad uno si rivela in quale di essi si nasconde il reale nemico e non solo la sua immagine. Così tornando dalla molteplicità alla semplicità – replica a Chang Sheng il maestro – l’unica cosa che conta è nutrire la bontà e non fare nulla di male. Dobbiamo separare la metafora dell’ombra dal concetto di male. La tradizione taoista non ha un atteggiamento moralistico tra luminosità e tenebra, tra il bene e il male, e rapporta la luce e l’ombra ad una contestualizzazione determinante la loro qualità e reciproca funzione. Così la sospensione di valutazione, derivata da un’osservazione non giudicante, esprime la sua epochè. Nella contingenza d’un contesto definito si sa riconoscere ciò che è bene con una chiara, luminosa, capacità di scelta relazionale mai assoluta e impermanente.
Nella psicologia del profondo, l’ombra ha rappresentato gli strati inconsci della personalità: la parte istintiva e irrazionale. L’ombra si aggira inquietante nei romanzi dell’Ottocento e del Novecento ad esempio in Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mr. Hyde (1886) di Robert Louis Stevenson. Figurazioni oppositive ed integrate non estranee a quelle varianti espresse nelle tecniche di combattimento delle arti orientali: la forma del monaco, del buffone, del saggio o del folle, fino alle pratiche istintuali degli animali in caccia e di quelli cacciati che si mimetizzano o si fingono morti emettendo l’odore del cadavere, o innescano l’apoptosi per difendersi con la morte dal dolore incombente.
L’ombra è la macchia che più efficacemente rappresenta l’inconscio e traduce questo in immagine. Oltre la verbalizzazione della sua vaghezza concettuale, in psicoanalisi, l’ombra lo rende rappresentabile e sceneggiabile. Il silenzio dell’inconscio si rivela nelle parole dell’ombra. Infatti “…lo spazio cognitivo del reale”, recita Marco Palladini nel suo È guasto il giorno (2015), “non mette a fuoco l’identità del me stesso più profondo”.
Non è la luce del giorno, ma l’ombra a rappresentare il ‘sacco trascinato dall’uomo’ – così l’ha definito Robert Bly – con dentro tutti gli aspetti rimossi e inconsciamente trattenuti e conservati: le paure, le frustrazioni, gli istinti repressi, i sensi di colpa, le pulsioni negate, le ferite subite ed inferte.
Con lo scenario delle tenebre tutto si rielabora nella camera oscura della mente e nel sonno, osserva Parmenide, vi è la soglia che separa i sentieri del giorno e della notte. I sogni slegano il sacco e fantasmatiche ombre allestiscono inquietanti rappresentazioni; la tradizione taoista descrive un ‘sogno esperienziale’ come vapore che nel sonno si libera della corporeità verso l’essenza dello Shen, dello spirito; ma anche l’inverso: la prassi vigile è imitazione del sogno nelle tecniche di visualizzazione e di psicodramma. La via della psicanalisi solleva il sipario e indaga oscuri scenari per portarli alla luce; Freud vi interpreta il dolore dell’esistenza, e quando l’alba smonta il palcoscenico dei sogni, il loro contenuto ritorna a chiudersi nel sacco dell’ombra. Ma il vissuto onirico rimane e si annida, anche al chiarore del giorno, nelle tensioni e nei blocchi della corporeità, nelle ‘paraprassie’ quotidiane, nei disturbi del linguaggio e della personalità. “Sogno di un’ombra è l’uomo”, scrive Pindaro; e, d’altro canto, “Siamo ombra profonda” osserva Giordano Bruno dalla cenere: residuo del fuoco che l’ha bruciato senza colmare tale la profondità. La psicoanalisi come nelle fasi R.E.M. in un tracciato elettroencefalografico – che ho sorvegliato, ancora studente per la tesi, e riportato in un breve Étude de l’activité tonique au cours du sommeil lent (“Revue Neurologique”, 1969) – indaga ‘la scena del sogno nei segni del sonno’: tana del bianconiglio per accedere all’inconscio. Per altra via il lavoro su corpo, mente e spirito – dal Qi Gong al Tai Chi-Qi Gong al Tai Chi Chuan – opera nei fatti la trasformazione interna del Nei Dan alchemico. Attraverso una pratica comportamentale si bypassa la verbalizzazione (sempre costretta a valutazioni giudicanti), non si soggiace a costrizioni moralistiche e non si confonde la cura dell’effetto con la causa che lo produce; si scambiano questi ruoli come nel rapporto tra causalità e casualità, affrontato nel capitolo “Scenari emergenti dai mutamenti dell’I Ching”.
Dissolvere i blocchi osteoarticolari è liberare l’energia bioelettrica del pattern emozionale correlato, è sciogliere il nodo del sacco dell’ombra, accettarla nella personalità e farla uscire dalla stagnazione di grigia depressione a cui può portare. Non è possibile seppellire l’ombra che tuttavia ha una sua funzione. Un outing non è risolutivo nella sola verbalizzazione. Si deve integrare l’ombra nell’accettazione dell’oscurità, del male, del dolore, del lutto, scioglierla e renderla più leggera e compatibile. Ciò si traduce, come considerato da Umberto Galimberti nel ‘Nuovo Dizionario di Psicologia’ (2018), nell’assumerla a dignità di polo d’un campo energetico disponibile nel processo di identificazione dell’io descritto nella psicologia analitica.
L’ombra può essere il nostro compagno di viaggio, per cui non siamo mai soli, come scrive lo psicologo junghiano Robert A. Johnson in Owing your own shadow: understanding the dark side of the psyche (1993). Non più un pesante sacco da trascinare, ma un contrappeso interno che bilancia l’edonismo sciocco d’un euforico ottimismo, d’una risibile ricerca della felicità delegata al successo, ai beni di consumo, all’estetica d’un sempreverde giovanilismo, al fitness d’una invincibile marzialità. Edonismo estraneo ad una legittima ricerca ‘edenica’ – messa a titolo di edificanti eventi dell’arte marziale ad opera di Andrea Brighi – stemperata da una salvifica ironia su noi stessi. Sono le forme già richiamate dell’ubriaco, del buffone e del folle a fornire spesso nel confronto fisico, dialettico ed artistico, le più efficaci variazioni. Il maestro 189 ha varie abilità ed anche contrapposte, per affrontare il lato oscuro; egli integra all’interno la propria ombra, oppure sa entrare nel suo sacco scomparendo abbandonandola sul terreno di pratica. Conosce l’arte della dissimulazione non come esercizio di falsificazione, ma come fluidità adattativa alla difesa: nel Tai Chi Chuan si impara a cedere per volgere l’intenzione avversa a proprio vantaggio. Il concetto di ‘cedere’ in quest’arte deve essere inteso come combinazione di duttilità, resistenza e trasformazione per una differente reattività. Quando l’ombra rappresenta i blocchi, e le paure interiori confondono le cose e l’ego scopre di non essere padrone in casa propria, il maestro 309 la squarcia per darle luce e voce, e la riporta a compatibili dimensioni. Sa che un calcio in bocca può fare miracoli così come può peggiorare le cose; adatterà l’insegnamento alla tipologia di chi apprende. Tutti i percorsi tenderanno all’identico fine: realizzare al meglio il proprio sé e renderlo compatibile con le condizioni personali del vivere e di quelle sociali, lottando quando inevitabile.
La funzione del gesto sull’ombra psichica dell’allievo è attentamente valutata ed incontrata poco più avanti, nel paragrafo Toccare l’ombra.
Il sorgere del tramonto
Nella tradizione orientale si dice: portare la luce all’interno, descritto ne Il segreto del fiore d’oro (1929) di Lu Tung-pin. Vediamo ciò che proiettiamo, ed è opportuno stabilire un positivo rapporto con l’ombra da noi sparsa sul mondo e sugli altri. Il mentore 108 conosce la luminosità e l’oscurità: Apollo e Dioniso. Quando pratica la seconda, per sottrazione della luce, diviene la profondità d’uno spazio senza confini e disorienta l’opponente. Se questo vuole afferrare il suo braccio, come nelle ombre cinesi, il mentore lo posiziona dietro il corpo e lo eclissa nel cono dell’ombra. Cercandolo, l’opponente precipita disorientato nel baratro della sua ombra profonda: notte che non conosce l’alba. Quando pratica la luce, la presenza della sua fisicità è incontenibile: una montagna illuminata dal sole.
Una grande difformità figurativa collega il contorno dell’ombra con l’immagine del corpo, così il bosco nella notte deforma le apparenze diurne degli alberi. Il piede sul terreno collega il corpo illuminato con la sua ombra e l’energia, nel passo, transita nei due piani, orizzontaleverticale, in funzione del progetto motorio. Il tempo adatto alla pratica, diversamente dalla profonda notte o dall’abbacinante meriggio, è quello delle ombre lunghe: dell’alba e del tramonto, entrambi abitati dal crepuscolo. Si deve trovare l’alba nel crepuscolo del tramonto quando il marinaio, con le effemeridi e il sestante, traccia il punto nave e sono osservabili contemporaneamente le stelle in cielo e il cerchio dell’orizzonte. Si deve trovare il tramonto nel crepuscolo dell’alba quando, in un attimo, dal silenzio gli uccelli si librano in volo alle prime luci.
Lorenzo non era mai andato per mare. Dalla sua casa, in cima alla collina, poteva godere di un magnifico panorama di boschi e valli degradanti.
Al tramonto andava sul retro della casa ad osservare struggenti tramonti fino all’ultimo raggio di sole. Voltandosi osservò che sul muro della casa la sua ombra gradualmente si allungava, diveniva sempre più grande e dominante, fino a quando l’oscurità saliva e dilagava su tutta la parete assorbendola.
Imparò ad andarsene subito a letto naufragando tra le ombre dei sogni. Prima dell’alba si alzava, andava davanti alla casa attendendo che l’aurora ne schiarisse la facciata e la sua ombra riemergesse nella chiara visione del vivere.
Il crepuscolo è la porta di entrata e di uscita tra notte e giorno, tra luce e tenebra, tra addormentamento e risveglio, tra conscio e inconscio mostrandoci come nell’oscuro Yin traspaia il luminoso Yang, e in questo adombri il primo. A proposito del Tai Chi Tu, dice Tiziano Terzani: “Il magnifico simbolo taoista di Yin-Yang con al centro della luce un punto di oscurità e un punto di luce al centro dell’oscurità”.
Il praticante esperto è l’opposto dell’uomo senz’ombra e di un’ombra senza fisicità; il primo cerca la sua ombra, la seconda cerca la persona da cui proviene. Nell’oscillare in un controllato range tra luce ed ombra, l’uomo può apparire buono o cattivo, in rapporto a diversi contesti, e vestire le due contrapposte personalità del racconto di Stevenson Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886). L’uomo comune è più attratto dal secondo dei due, dal brutale aspetto, dal comportamento eccessivo, cattivo e manesco (fanno notizia la sventura e lo scandalo). Mentre il praticante del principio Tai Chi, coerente lungo la via e nella virtù del Tao, è attento a ciò che sfugge, appare normale, non fa notizia ed è per questo eccezionale; fa eccezione.
Se la misurazione dell’ombra delle piramidi aiutò Talete di Mileto a calcolarne l’altezza nel momento in cui un palo piantato proiettava un’ombra di lunghezza pari alla propria, l’ombra del maestro 472 non rivela invece l’estensione dei suoi movimenti. Quando l’ombra è dentro di noi e nello stesso tempo siamo seguiti da un’ombra, si deve rivolgere la luce all’interno, descritto nel citato Segreto del fiore d’oro o Del grande uno. Meno l’ombra è incorporata nella vita conscia dell’individuo, indagava Jung, più l’ombra è nera e densa, mentre se è integrata diviene più consapevolmente chiara e fluida. Ombra e luce, istinto e raziocinio attraverso la sensazione, il sentimento, l’intuizione e il pensiero logico concorrono ad interpretare ciò che l’uomo percepisce e sperimenta. Vi è continuità dalla spontaneità dell’istinto alla naturalità evolutiva della logica consapevole.
Ciascuno, ha scritto Christian Wolff, crea una propria soggettiva realtà e contestualmente una comune, condivisa, realtà oggettiva. Le capacità di osservazione, di elaborazione e sperimentazione dell’individuo sono strettamente collegate al linguaggio, ai codici comunicazionali, alle strutture sociali ed alle condizioni ambientali modellatrici delle emozioni, delle idee, degli ideali. Prima ancora del linguaggio, il silenzio polifonico non verbale del corpo e dei suoi gesti è espresso dall’abbigliamento e arredamento incorporato (embodied mind): come nelle tracce tegumentali dei tatuaggi, nelle acconciature, nelle maschere, negli abiti talari, nelle uniformi militari ecc. Archetipi comuni e tabù, studiati in psicanalisi da Freud, ed in antropologia strutturale da Lévi-Strauss, sono impressi dalla tradizione e formano e informano il vissuto individuale e collettivo.
Nella pratica l’ego è il centro che identifica la persona, ma non si tratta di essere ‘centrali’ in una situazione di gruppo, assecondando l’attenzione egocentrica che l’io tende a suscitare, bensì di essere ‘centrati’ e contemporaneamente ‘marginali’. Disabitando il centro, sarà l’essere centrati ad attrarre i componenti del gruppo, riconoscendo il dinamico equilibrio stabilizzante del Tai Chi. In altre pagine (Il circuito della poesia, 1997), ho scritto di periferie centrali della cultura e della politica.
Comprendere e praticare il ‘principio superiore’ inscritto nel cerchio, è uno svelamento del sé, è l’accedere ad una via ‘transpersonale’ dove l’ego riduce il suo ruolo, il cerchio sfuma la sua circonferenza verso l’intuizione del Tao. Tra l’io e il sé c’è il ‘me’, e Max Stirner in L’Unico e la sua proprietà (1845) scriveva “Non c’è nulla che mi importi più di me stesso”. Un io catafratto nella difesa identitaria, possessiva e impositiva, va dissolto e fatto fluire dialetticamente nel confronto tra eros e polemos. L’apertura dialettica del cerchio individuale contempera l’eros insito nell’ io, nel sé e nel me, e trasforma il polemos conflittuale con l’altro da sé, realizzando la differenziata, contrapposta, armonia del ‘noi’.
La maschera persuona
Il lavoro su di sé, attraverso il corpo, la mente, le emozioni, lo spirito esprime un messaggio di fiducia nella realizzazione della persona, in equilibrio dinamico con la società e l’ambiente naturale. Lavoro non guidato dall’ego, ma dall’espressione del sé, della propria intima natura, dell’ombra a cui l’io deve conformarsi per esibirla e gestirla. L’ombra è l’esatta sagoma, è la maschera nell’accezione latina di persona perché posta sul volto ‘persuona’ dell’intima voce. Così il lemma latino – che tradotto significa ‘maschera’ – diviene il vocamen stesso di ‘uomo’. Non è l’annullamento dell’ego come affermazione d’una identità specifica e realizzazione delle proprie aspirazioni, ma è il riconoscere che gli altri siamo noi e i desideri e le passioni devono essere commisurati e corrispondenti alla natura del sé, ma esprimersi nelle condizioni della comune convivenza. L’identità personale, matrice individuale del sé più profondo, è il piano di appoggio dell’asse dell’io relazionale. Questo deve essere commisurato e adeguato alla base d’appoggio, al genotipo, al ‘cielo anteriore’ del taoismo. Il lavoro include revisione, riflessione, decostruzione, ricomposizione, accettazione ecc. Infine si attenua l’io e si porta la luce nell’ombra, si avverte il vuoto che tutto contiene, risuonando nell’essere al contempo luminoso ed oscuro. La matrice individuale e il modello realizzabile sono trascesi in una dimensione collettiva.
Nel rapporto tra conscio e inconscio l’uomo non può essere misurato, come abbiamo visto col palo di Talete, dalla lunghezza della sua ombra. Né l’intensità della luce raziocinante può cogliere lo stesso risultato. Solo la declinazione tra chiarezza ed oscurità, attraversando la penombra tra genio e malsanìa, può tentare quello scambio armonico che coltiva il contrasto ed evita il conflitto con gli altri e con se stessi. Comprendere Yin e Yang tra ombra e luce nella varietà delle condizioni, sottostà all’unicità del cerchio compreso nell’imperscrutabile Tao.
Pertanto l’ombra la si può vedere ma non acchiappare. Essa è sfuggente e ricca di contenuti, ed in antropologia è stata considerata la forma fisica dell’anima. A tal motivo, venduta l’anima al diavolo, il giovane Schlemihl del romanzo di Adelbert von Chamisso, è da tutti sospettato poiché ne è privo: non ha spessore, è un marcusiano uomo ad una dimensione. Diversamente nel Purgatorio le anime, senza corpo, guardano meravigliate Dante, l’unico a proiettare un’ombra. Ma nel teatro cinese delle ombre queste proiettano ed esprimono la vera identità percepibile. L’uomo comune non la considera mentre il maestro 601 di Tai Chi Chuan riconosce gli allievi dall’ombra che proiettano. Nella caverna platonica, non è solo dall’ombra che la realtà è conoscibile, e l’esperto del ‘Principio’ coniuga l’umbratile Yin alla luce dello Yang, alla luce della ‘forma’. Nella tradizione marziale la pratica dell’arte è chiamata ‘combattimento con l’ombra’, Yu Yinying zhandou.
A volte l’ombra è dissociata dalla realtà delle cose concrete, come nell’installazione anamorfica Shadow art di Tim Noble e Sue Webster dove un cumulo di spazzatura proietta l’ombra di due persone. Ma un’ombra non esiste se non vi sono l’oggetto da cui deriva e la luce che lo illumina; in questa ambigua alternanza di luci e di ombre, comunque distinguiamo chiaramente il luminoso Yang dall’oscuro Yin. Altre volte la luce come nell’opera Symbolon di Michelangelo Pistoletto, crea in una molteplicità di specchi una pluralità inesistente. Abbiamo visto alla fine del film I tre dell’operazione drago l’eroe, interpretato da Bruce Lee, essere confuso dalla replicazione speculare dell’avversario. Altre volte ancora la luce può proiettare l’ombra d’un desiderio: in una foto di Lyubomir Bukov due anziani, in uno stentato camminare, proiettano l’ombra di due ballerini. I pittori sanno essere l’azzurro il vero colore dell’ombra, ma quando la luce è quella di radiazioni che penetrano i corpi, come i raggi X – rivelando la sagoma degli organi interni – sono i Lettori di ombre, libro di cui ho perso le tracce, a formulare la diagnosi dei radiologi; questi ambienti ho frequentato. Così l’arte medica riguarda indagatori di sogni irreali, gli psicoanalisti, e di ombre oggettive, i radiologi. Più burocraticamente, solerti amministratori provinciali avevano promulgato una ‘tassa sull’ombra’ proiettata dalle tende degli esercizi pubblici, così ci ricorda l’architetto e poeta Francesco Gurrieri. Insomma è opportuno perdersi nell’ombra profonda per ritrovare se stessi e riemergere sperando di non esserne troppo delusi, pronti a migliorarsi.
Toccare l’ombra
La pratica del Tai Chi Chuan descritta ‘combattimento con l’ombra’, è il confronto con un opponente immaginario. Ma è anche combattimento con l’ombra di noi stessi, dove scopriamo che l’opponente siamo noi.
La forma ‘a solo’ è propedeutica al Tui Shou – spinta con le mani – con l’opponente reale; al contatto iniziale si insegna Ting Jin: energia di adesione e percezione. Si conosce se stessi attraverso l’altro e se ne valutano in anticipo le mosse contrastive coltivando, accrescendo ed affinando la sensibilità percettiva tattile. Una preziosa metodica propedeutica consiste in una forma di meditazione in movimento visualizzando di camminare nell’acqua fino ai fianchi con passi piccoli e lenti, in cerchio con gli altri praticanti. Si immagina, con ampi ed altrettanto lenti movimenti orizzontali e circolari delle braccia, di sfiorare con le mani la superficie dell’acqua creando cerchi che, allontanandosi, intersecano quelli generati dalle altre persone e creano una rete relazionale. Continuando a camminare, si concentra lo sguardo sulle dita che si sentono osservate, esaltano la sensibilità tattile e ci informano delle caratteristiche della superficie sfiorata e delle onde circolari create dalle mani altrui. Movimenti armonici delle braccia e delle onde visualizzate generano sensazioni vibrazionali interne alle dita. Si attua una mente estesa. L’insieme della metodica è qui descritto in modo sommario. Abbiamo verificato l’utilità di questa pratica anche nel tremore delle dita nelle forme iniziali di Parkinson, documentata da noi e da Eros Quarta in Tai Chi Chuan e Parkinson (2008).
Vediamo le ‘figurazioni immaginarie’ a cui ispirarsi per sviluppare il Tui Shou. Vi è una rotazione sferica vuota o piena di tutta la struttura corporea che diviene una ‘sfera Tai Chi’, all’occorrenza una leggera bolla di sapone o pesante come il maglio d’un film di Fellini, una piccola punta di spillo o assumere soverchianti dimensioni. La superficie della sfera è morbida, cedevole, ma recupera la rotondità; contiene un nucleo centrale, un baricentro forte e mobile che rende imprevedibile all’avversario la traiettoria eccentrica delle modalità reattive. Il nucleo è immerso in un liquido a densità variabile, come può essere il tono muscolare tra rilassamento e tensione. Ulteriormente il nucleo ha una condizione ipersferica poiché composto da una pluralità di sfere più piccole, e queste da altre ancora: maggiore il loro numero e minore la loro dimensione, più raffinata sarà l’energia di percezione aptica, Ting Jin, nella pratica di gestione contrastiva del Chuan. Il praticante assume una posizione vettoriale multidirezionale perché il grave più stabile non è un tavolo ribaltabile, ma una sfera poggiata su un unico punto: investita da una forza incidente può spostarsi ruotando senza perdere l’assetto. Nella pratica del Tui Shou ‘a solo’ la posizione vettoriale del braccio diviene quella d’un toroide, che nell’elettromagnetismo è un anello di materiale ferromagnetico avvolto da un filo conduttore detto solenoide. Il braccio con una rotazione percorre la circonferenza di questo grande anello. La mano lungo tale percorso circolare compie una rivoluzione passando gradualmente dalla pronazione alla supinazione. Il verso del campo magnetico del toroide segue la regola della mano: chiudendo quattro dita il pollice indica il verso del campo magnetico. Nel Tui Shou in coppia gli opponenti divengono due sfere rotanti a contatto assumendo la geometria del toroide: un flusso energetico biunivoco bilanciato, non una forma statica, ma un processo di scambio armonico dove l’asse centrale convergente della disposizione a toroide è il punto di contatto tra le mani dei due opponenti.
Oltre queste dimensioni fisiche, l’atteggiamento psichico del praticante può essere considerato un’ombra deformabile e imprendibile, può non essere percepibile per indecifrabile indifferenza, o dominante per forza d’intenzione manifesta, o cedevole come le sabbie mobili (un’ombra liquida sul terreno), dove l’opponente precipita e affonda. Ombra piccola o vasta, profonda o impenetrabile, rotonda od ellittica ma sempre per linee e superfici curve: la sinusoide tra Yin e Yang pronta alle trasformazioni. La geometria variabile della sfera Tai Chi realizza la massima potenzialità nella fluida circolazione dell’energia interna Qi; questa può essere concentrata o diffusa, densa o diluita, con maggiore o minore pressione all’interno della sfera la cui superficie non è mai rigida. Tutte caratteristiche a disposizione d’una impareggiabile prestazione dove bioenergetica e biomeccanica agiscono in perfetta sincronia.
Il contatto, già chiarito in altro contesto da Étienne Bonnot de Condillac, è in grado nel Tui Shou di stabilire una relazione tra il mondo delle percezioni soggettive e l’oggettiva realtà delle cose. L’interfaccia del mondo. La sensibilità tattile e quella cinestesica connessa al movimento, riescono a situare il corpo nello spazio, a distinguere il soggetto che percepisce dall’oggetto percepito, a coordinare l’insieme delle sensazioni, ad innescare il movimento e realizzare il progetto motorio. L’esercizio a due del Tui Shou, visto dall’alto, ha la forma del Tai Chi Tu dove Yin e Yang si generano l’un l’altro ed entrambi i contendenti nel rapporto contrastivo coltivano elementi di crescita personale.
Per dirla con il poeta Paul Valéry – sulla cui etica ed estetica il filosofo e letterato Giuseppe Panella ha scritto un Elogio della lentezza (2008) consono al Tai Chi e alla poematica del principio – ci si deve dare con il proprio corpo e connettere ‘sinestesia’ e ‘cinestesia’. La prima rappresenta l’integrazione sensoriale interna e la seconda il ruolo della prima nella dinamica percettiva dell’orientamento spaziale esterno. Oltre l’elogio della lentezza, evidente nell’esecuzione classica del Tai Chi Chuan, nelle forme veloci avanzate si evidenzia la rapidità di rotazione della sfera, del suo eventuale allontanamento dal pericolo; opportunità considerata nell’Elogio della fuga (1976) del biologo ed etologo Henri Laborit. Se sei più veloce della tua ombra, la tua forma è eccezionale, hai superato la velocità della luce che la proietta. Se la sfera diviene sufficientemente pesante, non sfugge e diviene stabile come un giroscopio rotante non deflettibile dalla sua posizione. Tutte figurazioni irraggiungibili ma di stimolo nell’addestramento da seguire.
L’insieme innesca un’indagine gnoseologica anche a livelli coscienziali profondi. Nella pratica del Tui Shou non vi è solamente uno scambio fisico con l’opponente, ma un’interazione tra ombre dove ciascuno proietta la propria ombra sull’altro. Si deve toccare e penetrare nell’ombra dell’opponente. Anche l’ombra ha la sua sensibilità: è in relazione alla geometria proiettata dall’oggetto, non alla sua consistenza, e conoscendone il profilo ne intuiamo la natura. Se la pratica inizia con metodiche concrete e idonee a costruire postura, centralità ed equilibrio, si avvia contestualmente una lieve ma profonda ricognizione psicologica dell’ombra, che dovrà poi essere integrata nella corporeità. Si impara a ritirare o dilatare l’ombra del corpo e comunque a non esserne scissi: individuazione del sé ed integrazione tra corpo ed ombra; anche la ‘figura’ che si fa e l’‘impressione’ che si dà sono manifestazioni dell’ombra. Nell’‘asse’ della luce ‘essa’ si ritrae scomparendo sotto i piedi. Lateralizzando il corpo, l’ombra dilata in soverchiante mole. Tra ‘asse’ – la verticalità della postura – ed il palindromo ‘essa’ – l’orizzontalità dell’ombra – si sviluppa l’abilità di essere sfera Tai Chi: dal punto alla linea curva, al cerchio, alla superfice rotonda, al volume sferico.
Nel Tui Shou l’integrazione non avviene solo nella dimensione individuale, ma si combina con la condizione dell’opponente. Non sono unicamente due corpi che vengono a contatto ma due ombre, due psicologie che si confrontano, si tastano e testano gli aspetti nascosti. Un reversibile metalinguaggio comunicazionale tra corpo e ombra è nella gara tra bambini a calpestare uno l’ombra dell’altro; così non è l’ombra che ‘pedissequamente’ segue il corpo che la proietta, ma è questo a muoversi in funzione di essa. Ninja, nella tradizione nipponica, è l’uomo ombra pronto a colpire.
Il linguaggio del corpo e dell’ombra comunicano tra loro. Una scissione tra la luce del corpo e la sua ombra mette in conflitto la personalità. Una dissociazione che porta ad un io debole e vulnerabile, perché non declina la potenzialità del Qi, nella mobile sinusoide del Tai Chi Tu, nell’integrazione tra gli opposti: tra ombra e luce. Non si può trattare dello Yin e dello Yang separatamente: dividerli è vanificare l’intrinseca essenza del principio superiore.
Allontanandoci e avvicinandoci al mezzogiorno e alla mezzanotte, troviamo il tempo che separa la linea d’ombra e la luce, e le unisce e le coniuga nel flusso dello scorrere Nel respiro del vuoto mediano (2009), scrive il poeta François Cheng. Oltre la soglia transitiamo tra luce ed ombra, e questo capitolo ne è una semplice multiforme proiezione speculare. Una diffrazione.