Massimo Mori nel combattimento con l’ombra

Coordinate d’accesso al flusso sapienziale

 

di Giovanni Fontana

 

 

 

Anni Settanta. Primi anni Ottanta. Non riesco più a ricordare quando sia scattato il primo contatto con Massimo Mori. È come se lo avessi sempre conosciuto, se non altro per il fatto che ogni nostra occasione d’incontro si è configurata come un frangente simpatetico; non solo per il comune interesse per la poesia, intesa nell’accezione più vasta, come atto creativo che va al di là di ogni confine imposto dalle convenzioni correnti, non solo, quindi, per la volontà di ricercare e sperimentare in ambito poetico, cavalcando l’interdisciplinarità e mordendo il freno di fronte ad ogni prospettiva unilaterale, ma anche per la compartecipata disposizione di fronte al mondo, per la comune modalità di guardare e di sentire.
Di Massimo Mori ho sempre apprezzato molto la maniera di trattare le cose, la sua pacatezza, il grande rispetto altrui, l’attenzione alla pienezza del presente, il suo pregevole equilibrio, il desiderio di procedere sempre e ovunque, nella vita e nell’arte, con serenità e trasparenza. Dati questi, rintracciabili in un colpo anche nel suo sguardo, profondo e deciso, penetrante quanto lucido, ma anche morbido e sensibile, esaltato da un tetto di sopracciglia fluenti, protese nello spazio come vibrisse pronte a cogliere le minime variazioni di campo: bio-fisico? elettromagnetico?
Ai tempi della prima edizione di Ottovolante (il festival fiorentino da lui curato che prese le mosse nel 1984) non sapevo che praticasse il Tai Chi, ma dalla sua parola, dal suo gesto, dal suo comportamento di fronte alle situazioni più diverse traspariva sempre qualcosa che segnalava la sua visione olistica del mondo. Fu quando ebbi modo di assistere ad una delle sue performance, veri e propri poemi d’azione, che capii veramente quanto la sua ricerca artistica fosse radicata nella filosofia orientale, e precisamente come fosse orientata lungo la direttrice del Tao, la strada per la autorealizzazione di sé. Da quel momento ho seguito gli sviluppi del suo lavoro poetico con un occhio più consapevole ed ho gradualmente scoperto come egli sapesse collegare il gesto poetico con il sapere filosofico e con quello scientifico e come tutto ciò fosse fortemente collegato al suo modus vivendi e al suo relazionarsi. Un dato materiale fortemente rappresentativo del suo essere uomo e artista, vero e proprio simbolo del suo atteggiamento nei confronti del mondo, è il suo progetto di Tavolino e sedia per l’ospite gradito, da cui scaturì il prototipo di un oggetto plurale, poi messo in produzione dalla falegnameria Santo Spirito di Firenze in otto esemplari numerati e firmati. Ne rimasi affascinato. Si trattava di un piccolo tavolo e di una sedia, il cui riferimento formale e strutturale era costituito dal simbolo del Tao, il cerchio suddiviso da una curva sinusoide in due porzioni, una bianca e una nera, distinte ma complementari, solo apparentemente opposte, ma in realtà collegate in un geometrico guizzo di incommensurabile valore sapienziale l’una all’altra. Sia pure definite nella loro rigorosa geometria, le due porzioni suggeriscono il movimento. Si tratta in effetti di chiari segni dell’alternanza, della coniugazione dinamica degli opposti, dove contraddizione e differenza costituiscono presupposti essenziali e insostituibili dell’unità, dell’integrità e della compiutezza dell’essere. Yang: maschile, positivo, attivo, caldo, dinamico, creativo; Yin: femminile, negativo, passivo, freddo, statico, ricettivo.
Di Yin e di Yang e di tanto altro ancora scrive Massimo Mori nel suo Tai Chi (Tàijí) – Poematica del principio, pubblicato da Caliel Group, nel 2018, in prima edizione, e ora disponibile nella nuova veste grafica, riveduta e ampliata, pubblicata dalle Edizioni Clichy di Firenze, con due saggi introduttivi di Amina Crisma e Ernestina Pellegrini. A prima vista sembrerebbe una sorta di trattato sul Taoismo in generale, ed in particolare sul Tai Chi Chuan e sul Qi Gong, discipline di cui Mori è Maestro, che vediamo connettersi, attraverso un sorprendente labirinto di relazioni architettato dall’autore, con numerosi ambiti di conoscenza, da quella poetica a quella filosofica e a quella scientifica, che testimoniano l’ampiezza degli interessi dello stesso Mori, uomo ed artista.
La struttura del volume denuncia al primo impatto l’originalità della concezione e la larghezza dell’orizzonte culturale prospettato. Pur trattando, infatti, con grande competenza la disciplina, il cui nome campeggia nel frontespizio del libro, il testo non si pone né come mero documento divulgativo, né come semplice manuale, né come uno studio di carattere storico-scientifico, bensì come un complesso strumento che esalta, in chiave critica e teorica, le relazioni (possibili – verificate o auspicate) tra il Tai Chi e i più disparati percorsi di conoscenza: da quelli filosofici a quelli scientifici, da quelli storici a quelli letterari. La «poematica del principio» e la «taologia del processo» che innervano il libro «non sono presentate in analisi compilatoria ordinata ma in modo frastico, disseminato e alluso», scrive Mori, specificando che «Considerazioni trasversali, multidisciplinari, comparatistiche, sono liberate da una rigorosa adesione a culture d’Oriente e d’Occidente» [p. 35]. Del resto basta scorrere rapidamente il sommario per intercettare titoli come Marginalità centrali tra filosofia, scienza e saggezza, Potenzialità pervasiva nel respiro della poesia, Silenzio nell’ombra profonda delle parole. Ma c’è di più, perché il volume assomma tutte le caratteristiche appena citate, ponendosi anche come opera autobiografica e come dichiarazione di poetica. In realtà ci troviamo di fronte ad un inarrestabile flusso di sollecitazioni che allargano ulteriormente la prospettiva in campo linguistico, antropologico, psicologico, terapeutico, tenute insieme da un denominatore comune costituito da quella che chiamerei volontà poetica: l’ardente desiderio di guardare il mondo, di sentire e di vivere poeticamente. Per essere ed esserci come poeta ad ampio spettro d’azione. D’altronde, a ben guardare la sua biografia, si direbbe che ci troviamo di fronte ad una figura dai mille volti: laureato in medicina, frequenta anche le facoltà di Lettere e di Psicologia, pratica la poesia e le arti visive; successivamente, attraverso progressivi momenti di sperimentazione, nei quali fa interferire discipline diverse, approda alla poesia visiva e alla poesia sonora; le amplifica e le riorganizza secondo chiavi performative, come era giusto che fosse per un artista entrato nell’ottica della creatività più articolata e complessa, incrociata grazie alle prime frequentazioni nel milieu della ricerca poetica internazionale. Le conoscenze in quest’ambito, che negli anni ’80 era ricco di passioni e di fermenti culturali, che facevano capo a numerose riviste, gruppi di editoria alternativa e collettivi di controinformazione, lo spingono a creare quel movimento di poesia, Ottovolante, che impegnerà la città di Firenze con numerose edizioni di un festival talmente denso di eventi da fare storia. Massimo Mori ne darà conto nel suo Il circuito della poesia (Manni editore, 1997). Da quel testo si evince come fosse importante, ricca e viva la rete di relazioni nello spazio poetico di quegli anni, innervato da fitti contatti diretti e indiretti, quando erano di là da venire i social e il bombardamento della comunicazione virtuale. A quest’ultimo proposito ci sarebbe tanto da dire, nel bene e nel male; ma qui mi soffermerei soltanto a sottolineare che, avendo oggi affidato gran parte della nostra attività (poetica e non) allo scambio digitale, abbiamo visto assottigliarsi la presenza del corpo, del contatto diretto, del toccarsi e del riconoscersi nella dimensione materiale, che tanta importanza rivestiva (e riveste) non solo nella dimensione creativa (performativa e fattuale), ma anche in quella della conoscenza, che si sviluppa procedendo corpo a corpo, faccia a faccia, gomito a gomito, mano nella mano, nella prospettiva collaborativa e conviviale. Mori ha sempre condiviso questo aspetto, tanto da voler riprendere con entusiasmo il costume primonovecentesco del caffè letterario, promuovendo un fitto programma di incontri al Caffè Giubbe Rosse per più di venti anni, illuminandoli, appunto, con il faro della convivialità, ma caratterizzandoli con una decisa impronta intermediale e intermodale. Poesia verbo-visiva, poesia sonora, poesia performativa pervadono gli spazi del Caffè con un fitto programma annuale, che impegna gli autori di punta nel confronto culturale e nel dibattito teorico. Il Caffè fu paragonato ad un «porto franco» che consentiva immediate verifiche sul campo.
Il magma delle informazioni canalizzate dai social, invece, raramente verificate, scarsamente ponderate, spesso sommariamente contrapposte in un gratuito e brutale gioco di demolizione dei valori etici e culturali, ci tiene lontani non solo da ogni possibile percorso di conoscenza reale di ciò che ci circonda, ma tende a spegnere anche l’energia positiva del ragionamento che vorrebbe muoversi sul filo dell’equilibrio alla ricerca del senso delle cose. Ciò rende più pressante (specialmente oggi, in cui stiamo vivendo gli ultimi – si spera – colpi di coda della pandemia da covid) l’urgenza della convivialità e di quell’atteggiamento di disponibilità e apertura al dialogo diretto che indicai a suo tempo come nomadismo performativo, riferendolo alla comunità dei poeti d’azione, che attraversano i linguaggi secondo dinamiche inarrestabili, e che, nello stesso tempo, sentono la necessità del confronto, con una pressante vocazione ad attraversare, anche geograficamente, i territori più vari.
Massimo Mori, che non è un poeta d’azione dell’ultima ora, praticando il Tai Chi Chuan fin dagli anni Settanta, ha sempre tenuto in gran conto il fatto che il corpo, nella sua globalità somatica e psichica, costituisce in sé un polo di tensioni energetiche in entrata e in uscita: centro di un irraggiamento multiverso, tanto più potente quanto più è posto in relazione diretta con altri poli similari. Del resto questa osservazione si specchia perfettamente nelle linee di principio che caratterizzavano le antiche filosofie del mondo, secondo le quali l’uomo doveva vivere in rapporto compatibile con la natura. In quest’ottica è pertanto fondamentale potersi riconoscere direttamente, potersi muovere insieme, specchiando la propria autocoscienza psicofisica in chi è di fronte a noi, esaltando le valenze che emana il quadro dell’incontro, naturale o artificiale che sia. Ovviamente nella dimensione del Tai Chi Chuan tutto ciò acquisisce, almeno in parte, una visibilità geometrica e ritmica che esalta il portato simbolico. Ho avuto modo di percepire l’intensità del clima di una lezione di Tai Chi Chuan nella scuola Nuovo Orizzonte, che Mori ha fondato nel 1996 e che dirige con professionalità. Rimasi colpito dalla sapienza gestuale, dall’eleganza delle forme, dall’armonia dei movimenti corali, tanto flessuosi, quanto rigorosi. La sapienza figurale traspariva dalle azioni: si percepiva chiaramente come ciascuna di esse fosse radicata nel profondo di una tradizione sapienziale passata attraverso una severa osservazione del mondo, ponderata con coscienza e consapevolezza, mediata da capacità tecnica e sensibilità estetica.
Numerose volte avevo incrociato le performance poetiche di Massimo Mori, sempre liberamente legate al Tai Chi, ma l’opportunità di seguire la sua esercitazione di gruppo con i suoi discepoli, mi regalava un valore aggiunto, rivelandomi che «la gestualità corale rafforza la condizione soggettiva verso una dimensione di individualità plurale» [p. 311]. Il parallelismo dei gesti immersi nel fruscio delle vesti alimentava un’esperienza unica. Tutto si collegava in quel sommesso tramestio: ne risultava un unicum che respirava quella dimensione totale che Mori, per altri versi e in un’accezione tipicamente occidentale, aveva riconosciuto a suo tempo nel concetto di «totalità» messo a punto da Adriano Spatola, poeta e teorico. Del resto Mori si è formato nell’ambiente dell’avanguardia poetica ed ha potuto facilmente osservare, anche là, il doppio volto delle cose e dei principi, l’ambivalenza del mondo dove tutto scorre in un continuo fluire. Come non tenere conto dei «fluenti traslati» di Arrigo Lora Totino, dove il denominatore comune è costituito dalla parola che passa, di continuo, da una dimensione all’altra, dal corpo figurale a quello sonoro, dalla pagina di libro allo spazio scenico, subendo influssi e provocando interferenze in un coerente e caleidoscopico fluire? E soprattutto, come non considerare un caposaldo come Verso la poesia totale di Adriano Spatola, uscito per l’editore salernitano Rumma nel 1969, che tanto peso ha avuto per autori della generazione di Massimo Mori? Quel libro apriva in Italia uno scenario nuovo per la poesia; ne suggeriva insospettate potenzialità, ne richiamava altre che erano finite nel dimenticatoio, ne rivalutava altre ancora, estraendole dalla straricca miniera delle avanguardie storiche, quando erano in molti a pensare che quel patrimonio non fosse poi di così grande valore; ma soprattutto offriva un quadro internazionale dei lavori in corso di cui poco si sapeva, se non altro per il difetto della critica ufficiale di guardare con sospetto tutto ciò che usciva dai canoni. Andava, ovviamente, ad osservare quanto succedeva contemporaneamente negli altri crogioli in ebollizione, dal nord al sud d’Italia, non esclusa l’area fiorentina dove le ventate di rinnovamento non erano cosa da niente. Ma un altro merito di quel libro (e Massimo Mori ne avrà certamente dovuto cogliere tutta la valenza) fu quello di aver sostenuto le idee di un giovanissimo Dick Higgins, allievo di John Cage alla fine degli anni Cinquanta, che trattando di interdisciplinarità e di fusione delle arti distingueva tra mixed media e intermedia introducendo una nozione di fondamentale importanza per la ricerca artistica contemporanea, anche se, purtroppo, il concetto è ancora oggi ignorato da molti operatori che non sanno riconoscere la differenza tra legame labile e legame indissolubile nella sperimentazione di nuovi linguaggi, dove, comunque, come sottolineava Spatola, l’idea di categoria doveva essere superata nell’ottica della continuità. Era il 1966. E un Massimo Mori poco più che ventenne, stando alle notizie biografiche che lo riguardano, aveva già avuto modo di sorprendersi di fronte al Tai Chi Chuan in quel di Hong Kong. Nello stesso tempo aveva sicuramente apprezzato le mirabolanti vicende narrate dagli scrittori della Beat generation, in primis Jack Kerouac, che con On the road (1951) aveva fatto del viaggio una ragione di vita e in The Dharma Bums (1958) indicava il suo percorso verso il Buddismo. E proprio con una citazione da Kerouac, Massimo Mori apre il suo testo, sottolineando la necessità del viaggio come esperienza conoscitiva che forma e trasforma. Del resto il valore di questa pratica, sia in senso reale che allegorico, è stato condiviso da tutte le culture come motore della storia, in quanto sintesi di spazio e tempo orientata nella prospettiva del sapere. Ma, scrive Mori: «Le tracce non indicheranno una direzione, poiché i versanti sono molteplici, ma porteranno al ‘principio’ rivelando la modalità del camminare, della ‘viandanza’, senza adesione pedissequa alle aree specialistiche e ai campi culturali attraversati» [p. 34]. Viandanza: esperienza che raccoglie in sé il dato fisico e psichico. A tal proposito, ci ricorda l’amico poeta e viandante Luigi Nacci che «Camminare è solo uno dei possibili mezzi per entrare nel cammino. Di più: non basta camminare per poter dire di essere in cammino. E non basta essere in cammino per poter dire di essere sulla strada della viandanza» (Viandanza, il cammino come educazione sentimentale, Laterza, 2016). Massimo Mori in questo libro ci lascia «tracce scritte dell’esperienza» [p. 33] in cui si è attardato negli anni, specificando che «Il fine è una filoillogica dissertazione: la sola posizione da cui intravvedere una rappresentazione complessiva, al contempo poetica e scientifica» [p. 34]. Pertanto non ci sarà da aspettarsi un’analisi disciplinare ordinata, canonica, così come sono abituati a fare i dottorandi e i ricercatori, bensì un tratteggio dinamico dove ogni considerazione è trasversale all’altra in modo da sollecitare memorie disparate e linee di principio in contrappunto, di fronte alle quali Mori potrà sfogliare la sequenza delle sue maschere per offrire al proprio specchio (e al lettore) il suo vero volto di artista e di pensatore, così come si presenta al momento. «Il confronto tra opposte affermazioni non contraddice, – scrive Mori – ma conferma la contestualità degli opposti nell’unicità del Tao» [p. 34]. In questo testimonia equilibrio e onestà intellettuale: disposizioni essenziali nell’intraprendere il percorso della scrittura che, qui, compendia per molti versi un percorso di vita.
E a questo riguardo, tiro in ballo ancora Luigi Nacci quando scrive: «Se cammino chiuso in me, coperto dalle maschere, sono un escursionista che fa trekking…, ma il mio io non cambia. Se faccio cadere le maschere e mi apro all’altro, sono in cammino che io stia camminando o no, e lì sì, inizia il cambiamento». È necessario, quindi, opporre al vento un volto vergine, una mente disponibile, altrimenti si rischia, come Tom Hanks in Forrest Gump, di arrestare improvvisamente la corsa senza motivazione alcuna [«Sono un po’ stanchino!»].
Ma dove e come può essere esplicitata la connessione tra il Tai Chi e la dinamica, peraltro molto disordinata, della sperimentazione poetica? Massimo Mori risponde alla domanda in vari paragrafi di questo libro, dove, con riflessioni circostanziate e dovizia di dettagli, chiarisce che il Tai Chi è una pratica processuale e il Tao è un cammino da percorrere secondo la dinamica dei mutamenti naturali, secondo un flusso che sorprendentemente non è unidirezionale, come siamo abituati ad interpretare secondo l’accezione corrente che ci riporta all’immagine del fiume, bensì polidirezionale. Tutto può muoversi secondo sensi e direzioni diverse, come solo in certa poesia può accadere. Per Corrado Costa, per esempio, lo scorrimento del fiume può avvenire addirittura al contrario. In Una poesia (trascrivendo senza i segni grafici), scrive: «[…] ci sono anche / fiumi che se ne vanno / secondo il senso della / fiumità e fiumi / che rinunciano che / se ne vanno / secondo / sensi / ESATTAMENTE / contrari» [in «Tam Tam», 14-15-16, 1977, pp. 10-12].
Al centro dell’attenzione di Mori c’è uno scorrere complesso e indefinibile che coniuga in sé tutte le possibili direzioni e tutti i possibili intrecci: è un percorso plurale di spazio e tempo che aderisce alla realtà fenomenica del macrocosmo e del microcosmo, proprio come i più avanzati studi scientifici stanno a dimostrare. È Carlo Rovelli, per esempio, a ricordarci che «Le immagini di spazitempi (al plurale) fluttuanti, sovrapposti gli uni agli altri, che si concretizzano a tratti rispetto ad oggetti particolari, sono una visione vaga, ma è la migliore che ci resta della grana del mondo» [Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Mondadori, Milano, 2017, p.81].
Questo scorrere complesso è organico alla dinamica dei termini Yin e Yang che costituiscono le facce dinamiche del principio superiore e denotano, pertanto, la complessità del mondo di cui siamo piccola parte. Lo Yin genera lo Yang e lo Yang alimenta lo Yin. Il concetto appare molto chiaro se ci si riferisce alla tradizionale immagine del cesto contenente due pesci, posti sul fianco, pancia contro pancia, ma con orientamenti testa-coda opposti, illuminati da un medesimo fascio di luce che, ovviamente a causa delle loro posizioni, intercetta le squame secondo direzioni diverse. Ne consegue che uno appare argenteo e abbagliante e l’altro viscido e scuro. Su campo chiaro spicca un occhio scuro, su campo scuro risalta un occhio chiaro grazie alla medesima magia della luce. Ma basta ruotare il cesto per fare in modo che la condizione di illuminazione cambi per ciascuno dei due pesci, cosicché quello che prima era scuro diventa chiaro e viceversa. Ed è così, allora, che l’immagine positiva diventa negativa e, come abbiamo già accennato, il bianco si muta in nero, il giorno in notte, il cielo in terra, l’immagine del sole diventa quello della luna, il caldo diventa freddo, il principio maschile diventa femminile, la radiosità di ciò che in occidente abbiamo chiamato Eros si trasforma nella cupezza di Thanatos, e così via, nell’alternanza perpetua tra soggetto e oggetto, tra pieno e vuoto, tra conscio e inconscio, tra soma e psiche. L’immagine del cesto è tradotta nella ben nota icona che può ben figurare come fregio distintivo di tutta l’attività di Massimo Mori. È in quest’ottica infatti, come si accennava prima, che s’inquadra il suo lavoro poetico: non secondo il dualismo positivista o la logica meccanicistica, ma piuttosto secondo l’esigenza di una poesia-processo, rapportata direttamente alla chiave etimologica del termine poesia: poiein. Poesia, dunque, come procedimento, come ricerca continua, come gesto fluttuante. Ecco allora che torna alla mente anche la sperimentazione permanente di matrice alchemica: un’azione che promuove l’azione, in un fluire inarrestabile e sapiente, fisico e mentale, dove ciò che conta è la verifica della trasformazione perpetua, in un’ottica trasversale, multiforme, poliedrica, secondo la visione di una natura proteiforme. Poesia, dunque, è fare. E il poeta è colui che fa. Allora ecco che poiein significa operare nello spazio tempo, montare, plasmare, realizzare, ma non qualcosa di predeterminato secondo una regola predisposta, bensì «qualcosa che si inventa facendola, secondo una regola che si scopre nel corso del fare», come specificava Luigi Pareyson. Riferendoci alle sue categorie estetiche, allora, per Mori (come, d’altra parte, ho fatto anche io per il mio lavoro), si può condividere il concetto di formatività, che «è nesso inseparabile di invenzione e produzione: formare significa fare, ma un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare» (Si veda Esistenza e persona, Genova, Il Melangolo, 2002).
A proposito delle forme sperimentali e sull’uso dei media, Mori sottolinea che «In questo percorso non si intende il ‘fare poesia’ unicamente come genere letterario, ma realizzazione di un flusso di produzione intersemiotica, intercodice, che li scambia e li attraversa» [p. 136]. Ciò appare tanto più importante per chi, non solo fa riferimento alla trasversalità e alla multidisciplinarità della scrittura poetica, ma opera anche nella dimensione della pura gestualità, dove l’atto è forma e sostanza, forma della sostanza e sostanza della forma. La costante nell’attività performativa di Mori è sfuggire alla codificazione del fare secondo un’unica direzione prefigurata, pur abbandonandosi al flusso di una tradizione sapienziale che fa tesoro di un bagaglio di figurazioni. Ne consegue che ogni esperienza creativa si trasforma in una sorta di viaggio dialettico tra le infinite neofigurazioni possibili e quelle richiamate da un lessico nel quale si specchia la storia dell’uomo e della sua interpretazione del mondo. Creare, in fondo, è anche viaggiare nello spazio operativo e all’interno di sé stessi, all’interno della propria aura energetica, la sfera che ingloba le nostre potenzialità meccaniche e mentali, in positivo e in negativo. Ecco allora che nel libro uno spazio significativo è dato dal Tui Shou, il combattimento con l’ombra, dove l’ombra rappresenta il nostro lato oscuro, insito nella nostra struttura psico-fisica, contro il quale siamo perennemente costretti a lottare per ottenere da noi stessi i migliori risultati possibili nel percorso verso l’illuminazione del sé e nel processo creativo. Combattimento con l’ombra è anche il titolo di una performance di Mori che si pone come atto tendente all’individuazione di nuovi orizzonti totalizzanti, in quanto dimensioni adatte al superamento dei dualismi che impediscono il corretto flusso della meditazione e che, nello stesso tempo, fanno sì che operativamente ci si possa muovere in maniera corretta tra le cose del mondo. Questa visione totalizzante esprime un concetto esattamente opposto a quello di globalizzazione che, sul fronte operativo, squisitamente materiale, secondo la prassi corrente che tutto inquadra, rappresenta il coinvolgimento delle varie componenti in modo esageratamente squilibrato. Ai vertici del potere non c’è infatti alcuna volontà di perseguire un equilibrio, semmai ci si sbraccia per il contrario: c’è concentrazione di interessi per alcune componenti a danno di altre: c’è sviluppo e crescita di alcune componenti a danno di altre: c’è estrema tensione tra ambiti socio-politico-culturali, tra classi e tra poteri. Tutto è dominato, scrive Mori, «dal mercato finanziario pronto allo scontro armato per imporsi con strumentali motivazioni ideologiche o religiose. Si contrappone una brutale prevalenza del potere di scambio del denaro, alla poematica del valore d’uso della natura» [pp. 67-68]. In questo senso il libro favorisce l’osservazione della necessità di un nuovo umanesimo. L’uomo contemporaneo si trova oggi di fronte ad una scelta drammatica: continuare a vivere così come stiamo facendo, procedendo verso la calamità globalizzante delle politiche dissennate e il disastro già da tempo globalizzato delle disuguaglianze e della crisi ecologica, o decidere di fare un passo indietro? Mori osserva che «si debba tornare indietro per andare avanti verso un nuovo umanesimo, verso conviventi umanesimi» [p. 68].
In ogni modo, forse, la questione potrebbe essere posta anche in modo diverso, posponendo i termini, nel senso che potrebbe essere auspicabile procedere decisamente e lucidamente nella ricerca avendo come obiettivo quello di tornare a vivere in modo più semplice. In quest’ottica, allora, si dovrebbe cercare di andare avanti per tornare indietro.
Il bagaglio immateriale che viene acquisito lungo la strada della conoscenza, sotto l’impulso del Tao, il continuo movimento, la necessità di percorrere più volte la stessa strada con prospettive differenti, il combattimento con l’ombra, tendono all’equilibrio del corpo-mente che tanto valore assume anche sul piano della prassi quotidiana. Del resto «la comprensione del mondo prende l’avvio dal percepire se stessi nel confronto con esso» [p. 57]. E Massimo Mori ci ricorda anche che un ruolo importante nel processo di tensione al Tao è dato dal Wu Wei, il non agire, che non rappresenta una rinuncia all’azione, ma dà il segno della necessità di non opporsi al flusso del Tai Chi, alla spinta naturale verso i possibili mutamenti. È, in un certo senso, un abbandonarsi cosciente alla corrente del Tai Chi, ma vigile, in attesa del cambiamento, in attesa dell’altro sé, in attesa di riconoscersi nuovo nello specchio di sé. È come se si fosse in attesa di un ospite del quale si è certi del gradimento. In questo senso il progetto-oggetto Tavolo e sedie per l’ospite gradito di cui ebbi occasione di parlare sulle pagine della rivista Territori (n. 11, aprile 2001) costituisce per molti versi una sorta di allegoria esemplare. Si tratta di un oggetto «da scomporre e ricomporre, dove il tavolino è contenitore di una sedia bipolare e fa coincidere con essa le sue linee di struttura; dove la sedia, che non ha un sopra e un sotto, un dritto e un rovescio, può essere offerta ad un ipotetico ospite (personificazione dell’attesa) ed al suo doppio, entrambi “graditi” nell’alternanza del bianco e del nero, del dentro e del fuori, del sotto e del sopra, dove il capovolgimento non altera né la forma, né la funzione, né il senso dell’oggetto; ma dove l’unicità si apre alla molteplicità in quell’essenziale alternanza cromatica che rappresenta tappe differenti e identiche nell’organicità del mutamento, dove singolare e plurale sono in coincidenza».
Un altro aspetto essenziale richiamato in questo suo libro è la questione epigenetica, che tanta parte ha nella nostra vita dal punto di vista biologico, ma che accompagna in modo determinante anche la sfera socio-culturale. Dal punto di vista della pratica poetica, ho sentito già da qualche anno la necessità di dover analizzare teoricamente l’atto creativo in questa prospettiva, e Massimo Mori, che ne dà testimonianza, mostra di sentire il tema come elemento organico alla sfera sapienziale della Poematica del Principio. Egli specifica che «I codici linguistici rivelano […] una comune ‘impronta fossile vocale’. L’intermedialità e la transmodalità rappresentano, nel principio del continuo mutamento, le proprietà modulanti e modulate di ogni sistema informativo» [p. 245]. In effetti, proprio come organismo biologico e ambiente creano interazioni cooperanti, la modificazione epigenetica scatta in ogni altro sistema, facendo sì che qualsiasi elemento appaia in staticità solo apparente, subendo di fatto continuamente l’influsso del contesto. Il processo evolutivo è verificabile in qualsiasi ambito disciplinare. Il dato scientifico, in questo come in altri settori, incontrovertibile ormai da tempo, fornisce la certezza che il divenire è in ogni istante in ogni luogo. Il fisico Fritjof Capra con Il Tao della fisica (1975) ha messo ben in evidenza come i risultati della ricerca scientifica fossero in perfetta sintonia con il pensiero taoista. Ma Massimo Mori ci ricorda, giustamente, che «quest’ultimo essendo di natura sapienziale non necessita di dimostrazioni scientifiche, di teorie filosofiche o di rivelazioni divine» [pag.103]. Ciò che conta è la coltivazione della saggezza. La tensione verso il Tao. Torno a riprendere, allora, l’analisi dell’opera Tavolo e sedie per l’ospite gradito, per indicarne il valore allegorico e per sottolineare che «Sotto il segno della totalità, l’opera di Massimo Mori […] allude al divenire che non ha luogo ed è in tutti i luoghi, quel divenire atteso che non si fa attendere, quel mutamento che è attesa di mutamento quando già tutto è cambiato, dove l’attesa ha una dinamica complementare al movimento: perché il divenire crea sempre un’attesa in divenire – l’attesa di un risultato che mai è presente e che sempre è presente negli infinitesimi accadimenti del processo di trasformazione – dove la presenza è subito assenza e l’attesa si prolunga nel tempo in una vibrante intermittenza di soddisfazione ed insoddisfazione, di illusione e delusione, di incantesimo e disinganno, di integrità e vacuità – perché l’attesa è la speranza del mutamento in quanto flusso vitale – l’attesa è la tensione che si accumula in un punto dello spazio-tempo quando quel punto già non è più là, già non è più, già non è, già è, già è quel che sarà, là o altrove – là, dove il dove non è mai dove e dove il quando non è mai quando, ma sia il dove che il quando s’intrecciano e si scambiano ruoli e posizioni – sì, proprio lì, l’ospite arriverà e sarà “gradito” – arriverà per una sosta infinitesima e trasparente – via via così per infinite leggerissime volte – ci sarà e non ci sarà, ci sarà non essendoci – cancellerà e rinnoverà l’attesa – e la prolungherà così tanto da tramutarla in viaggio, in percorso oltre i limiti di tempo e di spazio – così tanto e così tanto che quell’ospite gradito non potrà non essere anche gradito compagno di viaggio».
In perfetta analogia con quanto osservato per questo progetto-oggetto (esemplare testimonianza di ciò che indicherei come design allegorico), anche il libro in questione si pone sotto il segno di quella particolare tensione alla totalità rappresentata dall’Orizzonte Olistico, tanto che attraversa luoghi e tempi, in un continuo scambio di azioni-reazioni bilaterali, condotte in chiave rigorosamente interdisciplinare su un vasto arco di interessi, ma caratterizzate da un flusso di scrittura che in-forma il linguaggio dal punto di vista espressivo, esaltando i livelli di organizzazione del sistema-libro. Nel dispositivo che impegna la successione di tali azioni-reazioni l’autore incontra i suoi spiriti d’elezione, trasformandoli quasi in personaggi di una narrazione sui generis. E poi, forse per quel denominatore comune di interessi che ha caratterizzato nel tempo il nostro lavoro, o forse per sintonie di metodo o per pure simpatia e amicizia, quel che mi sorprende pia-cevolmente è che alcuni di questi personaggi li incontriamo insieme, condividendone il volto da due prospettive differenti: quella dello scrittore e quella del lettore. Ecco allora, alla rinfusa, come in un caleidoscopico carosello, Jack Kerouac, già ricordato, al quale dedicai tanto del mio tempo traducendone versi, Allen Ginsberg, di cui non posso dimenticare l’urlo, Douglas R. Hofstadter, che con la sua «eterna ghirlanda brillante» mi offrì spunti di riflessione per le mie dichiarazioni di poetica, Richard Buckminster Fuller e la sua tensegrità alla facoltà d’architettura, Ludwig Wittgenstein, tirato in ballo per una poesia dedicata a Giulia Niccolai, Heidegger che Adriano Spatola coinvolse nella sua Maison poétique, Bergson per me così importante nello studio del fotodinamismo bragagliano, Mallarmé, che esalta la mobilità del testo e inaugura nuovi spazi optofonici, Massimo Cacciari, i cui angeli mi sollecitarono spunti per l’analisi dell’opera di Pierre e Ilse Garnier, Luciano Anceschi, di cui non dimentico le parole incoraggianti, Giordano Bruno o Baruch Spinoza, pietre miliari del pensiero per la natura della loro visione olistica, Italo Calvino, con la sua illuminante leggerezza, l’amico Flavio Ermini, che sottolinea come la poesia sia «una forma di vita che mette in relazione essere umano e mondo, soggetto e fondamento: una forma di vita che svela una natura indefinibile [Tao, N.d.R], ma sulla quale non possiamo non riflettere» [p. 106-107], Baltasaar Gracián, in nome del quale con Adriano Spatola realizzammo una serie di zeroglifici a specchio intitolata Agudeza y arte de ingenio, Richard Bach, che è lì a ricordarci che «Quello che il bruco chiama la fine del mondo, il maestro chiama farfalla» [p. 273], Goethe, che offrì lo spunto per l’editoriale del primo numero della Taverna di Auerbach, Ilya Prigogine, più volte citato nei miei studi e in questo libro di Massimo per aver inteso la conoscenza scientifica come «ascolto poetico» [p.193], Zygmunt Bauman, che si è insinuato nel mio Déchets, Walter Benjamin e la sua allegoria, Haroldo De Campos, di cui conservo gelosamente le dediche, Adalbert von Chamisso e il suo Peter Schlemil, passione adolescenziale, Samuel Beckett, così importante per il mio teatro laboratorio sessantottino, Buddha, nel cui ventre buio son entrato con Serge Pey in quel di Kamakura, Mario Lunetta, fuoriclasse della «scrittura di guerra» [p. 125], e poi ancora, accelerando il vortice di mentori e maestri, ecco Albert Einstein, De Sade, Lautréamont, Verlaine, Rimbaud, Vladimir Majakovskij, Dino Campana, Totò, Stratos, François Villon, Eraclito, Platone, Carmelo Bene, Dario Fo, Lello Voce, Noam Chomsky, Spinoza, Rumi, Derrida, Roberto Calasso e ancora Brecht, Simon Weil, De Saussure, Ionesco, Kantor, John Cage, Giuseppe Chiari, Gilles Deleuze, Felix Guattari, Julia Kristeva, Kafka, eccetera, eccetera, fino ad Orazio di cui Mori ci ricorda il «Sàpere aude», rivolto a Massimo Lollio (Epistola II, Lib. I, Ad Lollium, v. 40): «abbi il coraggio di sapere, di conoscere!», esortazione da coniugare con il «So di non sapere» pronunciato da Socrate davanti alla giuria che lo condannò a morte. Si tratta di uno dei concetti cardine del pensiero. Ed appare sconvolgente oggi (nel XXI secolo) osservare che mentre il saggio sa di non sapere i terrapiattisti si sbracciano per difendere la loro verità contro il complotto di chi afferma la sfericità del pianeta. Il fatto è, sia pure banalizzando, che, mentre la consapevolezza di non sapere è un invito a conoscere, chiudersi a riccio dentro una presunzione di verità denota la imbarazzante volontà di restare a sguazzare nel pantano dell’ignoranza.

 

da rivista FERMENTI

n. 252, anno LI (2021)

 

 

Giovanni Fontana: artista e performer di fama internazionale si è imposto nella poesia sonora e visiva. Di formazione interdisciplinare ha integrato i linguaggi visivi, sonori e gestuali giungendo a definire una ‘poesia epigenetica’.
Ha diretto e collaborato con riviste fondamentali del panorama poetico sperimentale e intermediale tra cui ‘TamTam’, ‘Altri Termini’, ‘Doc(k)s’, ‘La Taverna di Aueberbach’, ‘Momo’, ‘Baobab’ ecc.
Numerose le pubblicazioni, tra cui: ‘Tarocco Meccanico’ (Altri Termini, 1990) e i saggi fondamentali ‘La voce in movimento’ (Harta &Momo, 2003), ‘Poesia della voce e del gesto’ (Sonetti, 2004), ‘Le dinamiche nomadi della performance’ ( Harta, 2006), ‘Il corpo denso’ (Campanotto, 2021).